28 set 2018

COSÌ TRISTE CADERE IN BATTAGLIA

È la storia del generale Kuribayashi Tadamichi che con una forza di circa 20.000 uomini era destinato a organizzare la più spietata e insistente resistenza all'invasione di Io Jima, una isola sperduta a 1250 km da Tokyo, dalle forze americane immensamente superiori durante la Seconda guerra mondiale.

Essendo il comandante cauto e razionale, inflisse gravi perdite agli americani sbarcati sull'isola, prima di ricorrere, infine, alle tattiche della guerriglia. In definitiva, tenne per 36 giorni quest'isola, che gli americani ritenevano che sarebbe caduta in 5 giorni.

Tra i militari statunitensi, i marines erano considerati più temerari, ma anche per loro Io Jima fu una battaglia tremenda, come definirono "peggiore battaglia della storia" o "inferno nell'inferno".

Infatti Io Jima fu l'unica battaglia in cui gli statunitensi ebbero più morti e feriti dei giapponesi nella guerra del Pacifico. Fu l'abile direzione di Kuribayashi a dare la coesione e lo spirito combattivo alla unità male equipaggiate e raffazzonate.

Gli ufficiali nemici avevano un'alta considerazione di Kuribayashi. Un generale americano ha scritto di lui nel suo libro: "La sua organizzazione del campo di battaglia era molto migliore di quelle che vedessi in Francia nella Prima guerra mondiale; d'altra parte gli osservatori hanno affermato che era superiore a quella dei tedeschi nella Seconda guerra mondiale".

La battaglia di Io Jima era disperata sin dall'inizio. Era evidente il divario tra le due forze in campo. I soldati giapponesi dell'isola non potevano contare sull'appoggio né di aerei, né di navi. In termini di uomini, circa 20.000 giapponesi dovettero affrontare circa 60.000 soldati statunitensi sbarcati sull'isola, che in più potevano contare sull'appoggio di altro 100.000.

La sconfitta e l'annientamento delle forze giapponesi erano inevitabili, e il loro unico obiettivo poteva essere quello di resistere il più a lungo possibile per ritardare l'invasione della patria. "Se quest'isola sarà catturata, i bombardieri americani B29  potranno decollare da qui per bombardare giorno e notte a piacimento la terra giapponese in cui vivono i genitori, le mogli, i figli e le fidanzate".

E durante il primo mese di permanenza, Kuribayashi rispedì a casa gli effetti personali che s'era portato al fronte. Arrivato nell'isola, si dovette rendere conto che non ne sarebbe uscito vivo. Consapevole che i suoi effetti personali non sarebbero stati restituiti ai famigliari in caso di sua morte, decise di mandarli loro sotto la forma di oggetti di ricordo, quand'era ancora possibile farlo.

In questo libro spesso si citano le lettere scritte e inviate da Kuribayashi alla sua famiglia di Tokyo. Dal suo arrivo sull'isola alla sua morte, in 8 mesi scrisse 41 lettere alla sua famiglia. Da queste lettere si emerge l'amore profondo per la sua famiglia ma anche l'invivibilità dell'isola, la difficoltà e la crudeltà delle battaglie.

La vita sull'isola era "inferno vivente" come definì Kuribayashi stesso. Innanzitutto i soldati soffrissero la mancanza d'acqua. Io Jima non aveva neppure un ruscello. Quando presero a scavare dei pozzi, finirono per trovare invariabilmente l'acqua salmastra ad alto contenuto di zolfo. Gli oltre 20.000 soldati non avevano altro da bere che l'acqua piovana che riuscivano a raccogliere.

Poi con il tempo, i necessari approvvigionamenti e armamenti iniziarono a non arrivare. Mentre i fabbisogni scarseggiavano, i soldati dovevano faticare giorno e notte ad addestrarsi militarmente e a costruire le postazioni difensive sotterranee, cercando inoltre di scampare agli attacchi aerei e ai bombardamenti continui. Era veramente l'inferno.

Ciò nonostante, solo per resistere il più lungo possibile, le truppe giapponesi combatterono eroicamente anche dopo che gli statunitensi sbarcarono sulla spiaggia e i giapponesi si rintanarono definitivamente nelle postazioni sotterranee a nido d'ape.

Ma alla fine, dopo aver resistito per 36 giorni dallo sbarco degli statunitensi, Kuribayashi decise di uscire dal bunker e di sferrare un attacco finale generalizzato.

Davanti alla morte imminente, Kuribayashi bruciò le banconote nel centro di comando. Le banconote raccolte tra i suoi soldati, nell'infuriare della battaglia, per l'acquisto dei cosiddetti, "Contributi alla difesa nazionale". Il valore delle banconote in questione ammontava a 36,584 yen. I suoi soldati avevano donato tutti i soldi che avevano con sé nella speranza che potessero servire alla difesa della patria. Semplicemente era impossibile inviare il denaro da un'isola così remota e in quella situazione. Dopo avere verificato l'importo totale e aver bruciato le banconote, inviò un cablogramma al Quartiere generale imperiale contenente la richiesta di versare una somma equivalente al Ministero delle Finanze. "Mi commuovo alle lacrime per la bontà d'animo dei miei uomini. Vi prego di fare il necessario per assicurare il contributo che questa sera ho dovuto bruciare in questo bunker".

Poi scrisse il suo ultimo telegramma con l'intento di far conoscere al mondo quanto coraggiosamente i suoi uomini – in gran parte i militari di leva trentenni e oltre che avevano lasciato le mogli e i figli a casa, avessero combattuto e fossero morti su quell'isola sperduta, così lontani da casa. Gli uomini che morirono credendo: "Il Quartier generale imperiale non può certo abbandonare un'isola come questa che fa parte integrante della patria giapponese..."

"La battaglia è giunta all'epilogo. Dal sbarco del nemico, gli uomini al mio comando hanno combattuto in maniera talmente valorosa da commuovere persino gli dèi. In particolare, sommessamente mi compiaccio che abbiano continuato a combattere da coraggiosi, seppure a mani nude e male equipaggiati, sottoposti a un attacco da terra, dal mare e dal cielo di una superiorità materiale inimmaginabile.
Uno dopo l'altro sono caduti davanti agli attacchi incessanti e tremendi del nemico. Perciò, la situazione è arrivata al punto in cui devo deludere le vostre aspettative e abbandonare questa importante posizione nelle mani del nemico. Con umiltà e sincerità presento le mie più sentite scuse. Non abbiamo più munizionamento e l'acqua è finita. È giunto per tutti noi il momento di sferrare il contrattacco finale e combattere valorosamente, consapevoli dell'approvazione dell'imperatore, senza risparmiare gli sforzi, per quanto trasformino le nostra ossa in polvere e polverizzino i nostri corpi. 
Ritengo che finché l'isola sarà riconquistata, il dominio dell'imperatore resterà eternamente insicuro. Giuro, pertanto, che anche quando sarà diventato uno spirito resterò nell'attesa che la sconfitta dell'Esercito imperiale sia trasformata in vittoria.
Mi trovo, ora, all'inizio della fine. Nello stesso tempo in cui rivelo i miei sentimenti più intimi prego sinceramente per la certa vittoria e la sicurezza dell'impero, Addio per l'eternità."

E aggiunse anche tre poesie funebri in chiusa al telegramma di commiato.

Impossibilitato a adempiere a questo arduo compito per il nostro paese,
frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.
Ma salvo sbaragli il nemico, il mio corpo non può marcire nel campo, rinascerò nuovamente sette volte e brandirò la sciabola.
Quando le lugubri gramaglie ricopriranno quest'isola, mio unico pensiero sarà la Terra imperiale.

Era un tabù per un generale giapponese affermare che i suoi soldati erano andati incontro alla morte "tristi".
Kuribayashi apparteneva all'élite degli ufficiali. Forse le esperienze vissute su Io Jima l'avevano indotto a non limitarsi a scrivere una poesia, bensì una sottile protesta contro il comando militare che aveva mandato a morire con tale leggerezza i soldati.

"L'America è l'ultimo paese al mondo che il Giappone dovrebbe combattere". Un'affermazione che Kuribayashi aveva ripetuto spesso. Una convinzione che trovava il fondamento nel suo soggiorno negli Stati Uniti, ossia nell'evidente potenza di qual paese che aveva potuto vedere coi propri occhi. In genere si ritiene che Kuribayashi sia stato destinato a Io Jima perché era ritenuto un comandante capace: ma secondo un'altra interpretazione, il suo modo di ragionare molto razionale, "all'americana", lo rese impopolare, tanto che sarebbe stato destinato intenzionalmente a una battaglia dalla quale era certo che non sarebbe ritornato vivo.

Il primo ministro Tojo Hideki che aveva nominato Kuribayashi il comandante in capo di Io Jima, gli ordinò di difenderla a tutti i costi. All'inizio il Quartiere generale imperiale sembrava ancora prendere Io Jima sul serio, considerandola "una località che richiede di essere rafforzata prioritariamente in quanto parte integrante della difesa della patria". Ma i rifornimenti e i fabbisogno scarseggiavano su tutti i fronti e il Quartiere generale imperiale che aveva ampliato a dismisura il fronte, era incapace di inviare i materiali necessari. L'interesse del Quartiere generale imperiale si concentrò sulla battaglia finale sul continente e la difesa di Io Jima passò in secondo piano. "Alla fine Io Jima cadrà inevitabilmente in mano nemica". Si decise di mollarla prima ancora dell'inizio dei combattimenti. Ma come poteva abbandonare alla leggera un'isola in cui aveva mandato più di 20.000 uomini?

"Sarò sempre alla vostra guida” come aveva affermato Kuribayashi agli suoi uomini, dopo aver bruciato le insegne dei gradi e le mostrine, i documenti e i oggetti personali, andò all'assalto in testa di circa 400 soldati sopravvissuti. Di norma, durante la carica finale generalizzata, l'ufficiale comandante faceva harakiri alle spalle dei suoi uomini avanzati. Nella storia dell'esercito giapponese non esiste nessun esempio di un generale di divisione che abbia guidato personalmente una carica.

I soldati giapponesi sferrarono un attacco silenzioso e molto ben organizzato che fece grande danno agli statunitensi. Durante la battaglia Kuribayashi fu seriamente ferito alla coscia destra, ma continuò ad avanzare, portato a spalle da un sergente maggiore. Si pensa che sia morto per dissanguamento oppure per essersi sparato un colpo di pistola. Non ci furono gli sopravvissuti in grado di testimoniare gli ultimi momenti di un comandante che volle combattere a fianco dei suoi uomini fino alla morte.

Era penoso leggere una storia come questa. Non ho parole se penso a quante vite sprecate inutilmente a causa degli alti comandi che non riuscirono ad adottare che una serie di scelte improvvisate. Nel frattempo penso che non dobbiamo dimenticare i sacrifici degli uomini non solo di Io Jima ma anche di tutti i campi di battaglia che combatterono fino in fondo per la patria. Grazie a loro, il nostro paese esiste ancora adesso.
L'altro giorno, quando abbiamo fatto una passeggiata in campagna, ho trovato i fiori di Higanbana (Lycoris radiata in inglese). Il suo nome significa letteralmente "fiori dell'equinozio d'autunno".
Ma da quanto tempo non li avevo visti?
Da bambina, quando con i nonni visitavamo al cimitero all'equinozio d'autunno, questi fiori rossi erano in fioritura sui argini tra le risaie. In un attimo mi sono tornati in mente quei giorni bellissimi ma molto lontani...

3 commenti:

Ariano Geta ha detto...

Ho visto il film di Clint Eastwood "Lettere da Iwo Jima" ispirato proprio alle lettere del generale (ma non solo le sue, anche quelle di tanti soldati semplici). Nel film si vede proprio la condizione di estrema difficoltà dei soldati giapponesi che non hanno praticamente più nulla, a malapena hanno le munizioni per sparare, eppure non pensano mai ad arrendersi. Vedendo il film si nota proprio l'ammirazione di Clint Eastwood (che pure è americano) verso questi soldati.

Nyu Egawa ha detto...

Ho avuto i brividi mentre leggevo il tuo post. Per me è inimmaginabile uno scenario di guerra del genere!

Titti ha detto...

@ Ariano Geta,
anch'io ho visto quel film, ed è proprio questo generale.

@ Nyu,
speriamo che non ripeta più...